L'Argentina, come la maggior parte dei paesi del mondo, è altamente esposta alle azioni delle organizzazioni mafiose e alle conseguenze sociali che ne derivano. Finora, lo Stato non ha fornito risposte efficaci o anche innovative. In Italia, insieme alla società civile organizzata e a un ampio settore della politica e della giustizia, si sta promuovendo da quasi settant'anni la creazione di una serie di strumenti logici, moderni e interconnessi per affrontare le organizzazioni mafiose e recuperare alcuni aspetti centrali del valore democratico perduto a causa delle azioni mafiose: la fiducia che i cittadini ripongono nello Stato. L'Argentina sta sempre più ascoltando e cercando di progettare alcuni di questi strumenti per implementarli nel paese. Riconoscere le somiglianze e le differenze nel corso della storia può essere il primo veicolo per un apprendimento sinergico. Ecco una breve rassegna di quella storia e di alcuni di questi strumenti.
La prima traduzione spagnola del Codice antimafia italiano è nata da un contesto specifico: l'avvio del progetto Bien Repósito e l'esigenza di promuovere il riutilizzo sociale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata in Argentina. Ma per approfondire questa versione del Codice, è anche interessante conoscere il contesto e le esigenze che hanno portato alla sua nascita nel suo paese di origine.
Prima di iniziare, mi soffermerò su alcune considerazioni metodologiche. Innanzitutto, in questo saggio il termine organizzazione criminale avrà lo stesso significato di quello di mafia o organizzazione mafiosa. Sebbene il termine associazione mafiosa o mafia in Italia abbia un carattere non solo concettuale ma anche giuridico, ai fini di questo articolo non sarà necessaria una distinzione e una caratterizzazione specifiche.
In secondo luogo, è importante notare che, data la mia formazione accademica in Storia, questo scritto sarà organizzato cronologicamente, poiché comprendo che l'analisi degli eventi storici, e in particolare di quelli dell'Argentina, fornisce gli strumenti che consentono una migliore comprensione delle realtà sociali.
La mafia è un fenomeno sociale che, tra le sue molteplici sfaccettature, assume il ruolo di un'organizzazione pianificata e strutturata per commettere atti criminali a scopo di lucro. Le organizzazioni di tipo mafioso in Italia hanno le loro origini nella seconda metà del XIX secolo, in una regione tanto unica quanto diversificata, che ha avuto inizio subito dopo la fine dell'influenza della capitale romana. Tutte, la Camorra in Campania, la Ndrangheta in Calabria e Cosa Nostra in Sicilia, sono nate nel quadro di un sistema feudale morente, quando i vecchi rapporti di produzione non avevano ancora finito di morire e ne stavano nascendo di nuovi. Di queste organizzazioni, forse quella su cui abbiamo più informazioni e conoscenze è la cosiddetta Cosa Nostra, la mafia che ha le sue origini nell'isola di Sicilia ma che prende il nome dalle sue controparti mafiose negli Stati Uniti, dall'altra parte dell'Oceano Atlantico.
Fino agli anni '60, l'attività mafiosa in Italia era concentrata attorno al controllo, all'estorsione e al contrabbando di prodotti agricoli. Quando finì la seconda guerra mondiale, la collocazione geografica ed economica dell'attività mafiosa cambiò insieme alla vita politica ed economica dell'Italia in generale, dove: 1) il Partito Democratico Cristiano (DC) prese il potere politico e lo mantenne fino ai primi anni '90; 2) i leader politici e militari negli Stati Uniti intervennero attivamente nella politica interna italiana a causa del livello di influenza del Partito Comunista Italiano; e, 3) il processo di ricostruzione dell'economia italiana definito dal modello di sviluppo keynesiano, che espanse i poteri e gli obblighi della politica economica e produsse il trasferimento del baricentro dalla campagna alla città.
Anche altrove nel mondo si verificarono importanti cambiamenti, influenzando e contribuendo alla crescita delle organizzazioni criminali internazionali, in particolare quelle italiane: 1) la domanda di droghe oppiacevoli - eroina - aumentò negli Stati Uniti; 2) le organizzazioni criminali francesi persero il controllo del mercato di questo tipo di droga; e 3) le organizzazioni mafiose italiane, in particolare Cosa Nostra, usando i loro soci criminali negli Stati Uniti hanno preso il controllo del mercato dell'eroina dal Medio Oriente.
La crescita e l'espansione del mercato della droga, non solo negli Stati Uniti, hanno favorito l'aumento esponenziale dei profitti di Cosa Nostra, e i benefici economici che sono rapidamente confluiti nell'isola sono stati l'ultimo incentivo necessario per scatenare due grandi problemi: le dispute interne e la sovrabbondanza di denaro fisico accumulato.
Il primo problema fu risolto nello stesso modo in cui si risolvono le differenze all'interno delle organizzazioni criminali: con polvere da sparo e sangue. Il secondo fu risolto approfondendo i rapporti con le istituzioni finanziarie, i settori moderni dell'industria del nord Italia e quelli della politica nazionale a Roma. Questi rapporti speciali resero più facile per la mafia siciliana reinvestire denaro nell'isola e in alcune aree dell'economia peninsulare. Facendo "investimenti legali" in tutta Italia, Cosa Nostra riuscì ad aumentare i suoi livelli di profitto, rafforzando al contempo i suoi legami con settori corrotti dello Stato che, in cambio del denaro ricevuto, garantivano l'impunità.
A causa dell'espansione e del consolidamento del sistema di governo mafioso di questa particolare organizzazione criminale, l'Italia iniziò a redigere una serie di leggi e disposizioni per affrontare il fenomeno della criminalità organizzata dal contratto democratico. La prima di queste fu nel 1962/1963 e consistette nella creazione della Commissione parlamentare antimafia, che è ancora in vigore oggi.
I primi e più dettagliati rapporti giudiziari/accademici emersero da questo organo parlamentare. Tentarono di dimostrare la reale esistenza del fenomeno criminale - diversi membri della commissione stessa negarono l'esistenza della mafia in quanto tale - e, fondamentalmente, servirono a caratterizzare la mafia e poter così trovare i meccanismi idonei per intervenire sul fenomeno mafioso.
Uno dei rapporti più importanti, che assunse un significato reale sia all'interno che all'esterno della Commissione, fu presentato nel 1976. Questo rapporto, presentato in minoranza dai parlamentari Cesare Terranova e Pio La Torre e sostenuto solo da altri sei deputati e senatori, faceva riferimento diretto ai rapporti di alcuni dei più importanti leader politici della DC in Sicilia con Cosa Nostra. Per la prima volta, delineava anche quello che sarebbe poi diventato l'asse centrale della politica criminale dello Stato italiano per affrontare la criminalità organizzata: il profitto.
Una delle prime norme in materia di organizzazioni criminali - senza fare particolare riferimento alle organizzazioni di tipo mafioso - è stata la legge n. 1423/56 sulle "Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per l'incolumità e la morale pubblica", approvata nel 1956 e abrogata nel 2011.
Quasi dieci anni dopo, con la legge 575/65, il Parlamento italiano ha approvato una serie di disposizioni per cercare di affrontare la possibilità di applicare misure di prevenzione - misure cautelari - nei confronti di persone sospettate di aver commesso reati di tipo mafioso. Queste prime disposizioni, insieme alle relazioni della Commissione parlamentare antimafia e al lavoro sindacale e politico di Pio La Torre, hanno portato alla presentazione di un disegno di legge che ha trasformato e contrasto alle mafie. Così, nel 1980, l'allora deputato Pio La Torre - accompagnato dal ministro dell'Interno Virgilio Rognoni - ha cercato di qualificare il reato di associazione mafiosa e il potere di ordinare la confisca dei beni - i proventi - che l'organizzazione criminale ha acquisito attraverso l'attività criminale.
Il primo articolo del disegno di legge definisce l'associazione mafiosa come reato.
Art. 416 bis. “Chiunque fa parte di un'associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone è punito con la reclusione da tre a sei anni. Chi promuove, dirige od organizza l'associazione è punito, per ciò solo, con la reclusione da quattro a nove anni. L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza intimidatoria del vincolo associativo e della condizione di sottomissione e di silenzio che ne deriva per commettere un delitto, per acquisire direttamente o indirettamente la direzione o comunque il controllo di attività economiche, concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per conseguire ingiusti vantaggi o benefici per sé o per altri. (...) Se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà. È sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il delitto e delle cose che ne costituiscono il prezzo, il prodotto, il profitto o ne costituiscono l'impiego. (...) Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra e alle altre associazioni, qualunque sia la loro denominazione locale, che, avvalendosi della forza intimidatoria del vincolo associativo, perseguono finalità corrispondenti a quelle delle associazioni di tipo mafioso."
L'articolo 31 dello stesso progetto ha incorporato la confisca come parte della sanzione punitiva:
“(...) Alla condanna segue la confisca dei beni a qualsiasi titolo acquisiti, nonché del corrispettivo dei beni a qualsiasi titolo alienati. Nei casi in cui non sia possibile procedere alla confisca dei beni acquisiti o del corrispettivo dei beni alienati, il giudice ordina la confisca, per un valore equivalente, delle somme di denaro, beni o altre utilità di cui i soggetti fanno riferimento nell'articolo 30, primo comma, per averne la disponibilità.”
La specificazione dei reati commessi in quanto membro di un'organizzazione di tipo mafioso, insieme allo strumento legale della confisca dei beni -prodotto, profitto o equivalente- che le organizzazioni mafiose acquisivano, divenne la prima e vera preoccupazione delle organizzazioni mafiose nei confronti dello Stato.
A causa dei suoi tenaci sforzi per allineare le pratiche giudiziarie, politiche e sociali per combattere la criminalità organizzata, Pio La Torre divenne un bersaglio di Cosa Nostra. Due anni dopo aver presentato il progetto sulle organizzazioni mafiose e aver avviato un'ardua campagna per opporsi all'installazione di una base di lancio missilistica NATO nell'isola di Sicilia, il 30 aprile 1982, a Palermo, sua città natale, Pio La Torre fu assassinato insieme a un compagno di partito.
Dopo l'omicidio di La Torre, le uccisioni continuarono. Nel tentativo di fornire una risposta apparente a una situazione che era sfuggita al controllo, le autorità nazionali inviarono sull'isola Carlo Alberto Dalla Chiesa - un generale dei Carabinieri - come Prefetto di Palermo per fermare lo spargimento di sangue; solo quattro mesi dopo, anche Dalla Chiesa fu ucciso insieme alla moglie da sicari inviati dai vertici di Cosa Nostra. Lo shock di questo nuovo omicidio costrinse i politici nazionali a dare una risposta immediata: il 13 settembre 1982 - dieci giorni dopo - il Parlamento italiano approvò la legge n. 646/1982, il progetto presentato due anni prima da Pio La Torre e Virgilio Rognoni.
Mesi dopo, nel 1983, il magistrato Rocco Chinnici decise di convocare magistrati e procuratori e di creare un gruppo speciale dedicato esclusivamente a indagare e dimostrare che le attività criminali di Cosa Nostra erano varie, organizzate e commesse da un'entità volubile ma organica. Il proto-team era inizialmente composto dallo stesso Chinnici e dai procuratori e magistrati Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello. Nel giugno di quell'anno, Chinnici fu ucciso quando un'autobomba esplose fuori casa sua e il suo posto fu preso da Antonino Caponnetto, un magistrato arrivato dalla città di Firenze che aggiunse Leonardo Guarnotta al team.
Le indagini del pool raggiunsero il culmine nel 1987 quando un tribunale, sulla base dell'accusa e del rinvio a giudizio fondati da Falcone e Borsellino, condannò più di 350 mafiosi nel Maxiprocesso a un totale di 2.665 anni di carcere, senza contare gli ergastoli. La risposta della mafia e dei settori corrotti della politica non si fece attendere. Il capo del pool antimafia, Antonino Caponnetto, dovette tornare a Firenze convinto che Giovanni Falcone sarebbe stato colui che avrebbe preso il suo posto come capo della squadra. Con sorpresa e dispiacere di molti, e dopo una manovra apparentemente architettata da settori giudiziari e politici, il posto finì per essere occupato da un magistrato prossimo alla pensione, senza esperienza in indagini contro la mafia e che smantellò rapidamente il sistema vincente del pool antimafia.
Negli anni a venire, un settore significativo della giustizia italiana continuò a indagare su Cosa Nostra, ma dopo la condanna del cosiddetto Maxiprocesso, le prove e le testimonianze fornite dai pentiti, i collaboratori di mafia pentiti, portarono a un approfondimento delle indagini sulle complicità dei settori imprenditoriali e politici con l'organizzazione mafiosa. Il clima teso di fronte alla confusione delle nuove indagini scatenò un clima di sfiducia, accuse, bugie e altri omicidi.
Il leader della lotta alla mafia era Giovanni Falcone, e la maggior parte di questi attacchi erano diretti contro di lui. Non per questo, ma per l'impossibilità di poter svolgere le indagini a lui affidate, Falcone decise di accettare la proposta di dirigere la Direzione Affari Penali del Ministero della Giustizia con sede a Roma. Da lì propose e ottenne la creazione della Direzione Investigativa Antimafia (DIA) e della Direzione Nazionale Antimafia (DNA). Nel 1991, attraverso i decreti legislativi n. 345 e n. 367, vennero create le rispettive direzioni, istituite con lo scopo di approfondire e coordinare le indagini giudiziarie. Attualmente la DIA è un'organizzazione composta da appartenenti alle forze di sicurezza come la Polizia di Stato, la Guardia di Finanza e i Carabinieri. Al contrario, la DNA - attualmente la DNNA (Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo) - è guidata dal Procuratore antimafia e antiterrorismo, nominato dal Consiglio superiore della magistratura, con l'intesa con il Ministro della Giustizia.
La conferma delle condanne pronunciate nel Maxiprocesso da parte della Corte di Cassazione scatenò la furia dei vertici di Cosa Nostra. Secondo le dichiarazioni dei pentiti, alla fine del 1991, in un incontro nella cittadina siciliana di Enna tra i vertici di Cosa Nostra, con quello che era apparentemente un settore corrotto dei servizi segreti, fu concordato o autorizzato l'uccisione di un certo gruppo di funzionari. Il primo di questi uccisi fu Salvo Lima, un personaggio di alto rango della politica siciliana che fungeva da collegamento tra il Primo Ministro d'Italia - Giulio Andreotti - e Cosa Nostra, e che ruppe la promessa fatta alla mafia di annullare le condanne del Maxiprocesso.
Poi Cosa Nostra pianificò ed eseguì l'omicidio dei vertici della lotta alla criminalità organizzata. Il 23 maggio 1992, utilizzando un sofisticato ordigno esplosivo piazzato sotto un'autostrada da tre mafiosi, assassinarono Giovanni Falcone, sua moglie e magistrato Francesca Morvillo e tre delle sue guardie del corpo. Cinquantasette giorni dopo, durante i quali gli era sempre stato chiaro che sarebbe stato ucciso anche lui e così approfittò della situazione per denunciare le complicità politiche e imprenditoriali con Cosa Nostra, Paolo Borsellino e cinque delle sue guardie del corpo furono anch'essi uccisi da un ordigno esplosivo.
L'assassinio dei vertici e delle loro guardie del corpo suscitò un clamore nazionale, che echeggiò in varie parti del mondo, in particolare negli Stati Uniti, in Spagna e in Francia, e costrinse le autorità statali a sbloccare una serie di misure proposte dallo stesso Giovanni Falcone per approfondire la lotta alla mafia.
Tra gli omicidi di Falcone e Borsellino, l'articolo speciale e particolare 41bis riguardante il regime carcerario fu modificato dal decreto legge n. 306/92. Tale decreto, divenuto legge solo dopo l'omicidio di Borsellino, prevedeva la possibilità di sospendere le garanzie e gli istituti previsti dal regime carcerario al fine di impedire la trasmissione di ordini dal carcere all'esterno. L'inasprimento del regime ancora oggi vigente consiste nell'impossibilità di accedere all'istituto della liberazione anticipata per i condannati per reati di mafia se non collaborano prima con la giustizia, in regimi di isolamento e controllo permanente, e stabilisce che non possono avere contatti fisici con i familiari quando ne ricevono visita.
All'inizio del 1993, il capo supremo di Cosa Nostra, Totò Riina, fu arrestato dopo oltre dieci anni di latitanza, ma la mafia continuò ad aumentare la spirale di violenza, esportando i suoi meccanismi estorsivi nella penisola. Il 27 maggio, un'autobomba a Firenze uccise cinque persone, il 28 luglio 1993, due autobombe esplosero nella città di Roma, ferendo 22 persone, e il 23 gennaio 1994, le forze dell'ordine riuscirono a disattivare un ordigno esplosivo piazzato nello Stadio Olimpico di Roma quando stava per svolgersi una partita di calcio tra Lazio e Udinese.
Di fronte a un'ondata di indagini e arresti, alcuni dei quali indicavano un possibile tradimento all'interno della nuova dirigenza di Cosa Nostra, l'organizzazione mafiosa decise di cambiare strategia: continuò a svolgere le attività criminali di sempre ma con un profilo estremamente basso. Senza attentati o omicidi che impattassero sulla stampa o sulla politica, la mafia continuò a tormentare la vita dei cittadini. In questo quadro di apparente calma, le organizzazioni sociali continuarono a sviluppare attività volte non solo a smantellare la mafia dal punto di vista giudiziario, ma anche a destrutturarla culturalmente ed economicamente.
Quattordici anni dopo, su iniziativa popolare dell'organizzazione sociale Libera, venne approvata la legge n. 109/1996, che stabiliva che i beni confiscati alle mafie - attraverso la legge Rognoni - La Torre - possono essere riutilizzati a fini sociali dallo Stato stesso o dalla società civile organizzata. In questo modo e fino a oggi, più di quindicimila immobili sono stati trasformati in sedi dello Stato, di organizzazioni e cooperative sociali. I terreni appartenuti ai membri delle organizzazioni mafiose vengono utilizzati da cooperative agricole che realizzano produzioni biologiche e inclusione socio-lavorativa dei settori più vulnerabili. Grandi edifici sono stati trasformati in biblioteche pubbliche, centri di accoglienza per donne vittime di violenza di genere, alloggi per anziani e centri sportivi e socio-educativi per giovani di quartieri emarginati.
Ciò che rende speciali esperienze di riciclo sociale come quelle che si stanno verificando in Italia è che si inseriscono in un circolo virtuoso di empowerment e lavoro congiunto tra società, vittime e Stato, rigenerando la fiducia in quest'ultimo, indebolita da azioni di stampo mafioso. Attraverso la legge promossa dalle associazioni sociali, che ha ricevuto un milione di firme, anche le camere di commercio, i sindacati, le associazioni professionali e i rappresentanti religiosi di diverse fedi si sono inseriti nel circolo virtuoso che oggi continua a trasformare spazi di illegalità e dolore in spazi di lavoro e solidarietà.
Un altro passaggio fondamentale nel processo di costruzione e implementazione di strumenti per combattere la criminalità organizzata all'interno del processo italiano è stata la legge n. 4/2010, che ha determinato la creazione di un'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (ANBSC). Attraverso di essa, i quasi sessantamila beni, le cinque società e le centinaia di migliaia di beni mobili sottratti alle organizzazioni mafiose vengono preservati, gestiti e ne viene garantito il corretto utilizzo. La sede principale dell'agenzia si trova attualmente a Roma, precisamente all'interno di un bene confiscato.
Dopo 46 anni di lavoro da parte di ampi settori della magistratura, della politica e delle organizzazioni sociali, l'Italia ha intrapreso la strada dell'organizzazione e dell'unificazione delle numerose leggi e normative antimafia che sono state create nel tempo. Così, nel 2011, con il decreto legislativo n. 159/2011, è stato regolamentato e pubblicato il Codice antimafia italiano.
I primi quindici articoli del Codice specificano le misure di prevenzione personali per evitare la possibile commissione di reati da parte di persone sospettate di appartenere ad organizzazioni mafiose. Gli articoli dal 16 al 34 ter indicano le misure per determinare il sequestro e la confisca dei beni che potrebbero essere il prodotto o il beneficio dell'attività mafiosa. Gli articoli dal 34 ter al 54 definiscono il meccanismo con cui i beni sequestrati o confiscati vengono conservati e utilizzati. I successivi articoli fino al 114 definiscono il trattamento degli atti antimafia generati nei processi di indagine e i meccanismi con cui le amministrazioni comunali infiltrate dalla mafia vengono sciolte e gestite. Infine, vengono menzionate alcune norme che, in termini generali, regolano il funzionamento della DNAA, della DIA e dell'ANBSC.
L'esigenza di tradurre il Codice Antimafia italiano è nata nel contesto dell'implementazione in Argentina del progetto Bien Restitudo, guidato da Libera e dalle Associazioni di Nomi e Numeri contro le mafie. Il progetto mira a trasformare i beni criminali in beni comuni affinché possano essere riutilizzati socialmente ed economicamente dallo Stato e dalle organizzazioni popolari. Il riutilizzo dei beni è una pratica che consente allo Stato di adempiere al suo dovere di riparare i danni subiti dalle vittime dirette delle attività criminali, ma anche dalle vittime indirette, che è la società civile in generale, con particolare attenzione ai suoi settori più vulnerabili.
La prima traduzione del Codice Antimafia italiano è stata un elemento di riferimento per approfondire la conoscenza della legislazione e della pratica antimafia dello Stato e della società civile organizzata in Italia. L'opportunità di avere la versione spagnola di questo codice ha aperto le porte a tutti i paesi latinoamericani per acquisire uno degli elementi centrali di una politica innovativa e innovativa attorno a un fenomeno sociale, che oggi e nei prossimi anni sarà una delle più grandi sfide della società globale insieme al cambiamento climatico.
Il riutilizzo sociale dei beni della criminalità organizzata è in Italia uno strumento efficace che consente, da un lato, di risarcire le vittime dirette e indirette della violenza mafiosa e, dall'altro, di riconquistare la fiducia che i cittadini ripongono in esso e che è fondamentale per la salvaguardia del contratto democratico e, al contempo, di destrutturare la base economica delle organizzazioni mafiose, loro unica fonte di sopravvivenza.
In Argentina, e dopo tre anni di lavoro, con il numero di fascicolo legislativo 1314-D-2024, più di trenta deputati di nove partiti politici diversi hanno presentato un disegno di legge elaborato da più di quaranta organizzazioni sociali, giudiziarie e religiose in cui si propone di creare un'Agenzia per amministrare i beni che la giustizia federale salvaguarda e confisca alla criminalità organizzata e che siano riutilizzati socialmente sia dallo Stato che dalle organizzazioni sociali, replicando così il modello italiano.
Note
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